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Osmosis

Anno: 2014
Tecniche: mixed media
Materiali: incisioni, dipinti, sculture, istallazioni

Osmosis è il titolo che il critico e curatore Tommaso Evangelista ha voluto per raccogliere alcuni dei miei lavori realizzati nei precedenti dieci anni, in una piccola restrospettiva presentata all' Officina Solare Gallery di Termoli (CB).

Diversi progetti realizzati con diversi media sono andati a dialogare in un unico spazio con l'idea di raccontare il percorso artistico attraversato che ha previsto dipinti, incisioni anche dal soggetto erotico del progetto Human Resources ancora in corso di arricchimento, sculture in metallo oltre a gioielli più evocativi della collezione Supernatural ed istallazioni.
La prima riflessione di Merleau-Ponty sulla pittura di Cézanne, esposta nel saggio "Il dubbio di Cézanne", nasce sulla base dei temi delineati nella Fenomenologia della percezione, identificando nella pittura la forma più pregnante con cui si esplicita il linguaggio silenzioso del corpo vissuto. Il segreto della pittura e del segno sta nel considerare il corpo come apertura, per la sua capacità di dischiudere il mondo della vita nella quale è immerso e la genesi del senso che lo sostanzia:
«Cézanne non ha creduto di dover scegliere tra sensazione e pensiero come tra caos e ordine. Non vuole separare le cose fisse che appaiono sotto il nostro sguardo e la loro labile maniera di apparire, vuole dipingere la materia che si stando una forma, l’ordine nascente attraverso un’organizzazione spontanea. Non introduce la frattura tra i “sensi” e l’”intelligenza”, ma tra l’ordine spontaneo delle cose percepite e l’ordine umano delle idee e delle scienze. Noi percepiamo le cose, ci intendiamo su di esse, siamo ancorati ad esse e solo su queste fondamenta di “natura” costruiamo delle scienze. Cézanne ha voluto dipingere questo mondo primordiale, ed ecco perché i suoi quadri danno l’impressione della natura alla sua origine».
Questo mondo primordiale del segno e della sensazione lo si ritrova nell’opera grafica e nelle installazioni di Simona Materi che declina la molteplicità della carne attraverso lo scavo divergente nella materia. Nel suo tentativo di unire spirito, intuizione e sostanza, nella ricerca di una concreta organicità e di un senso intimo e nascosto, infatti, è possibile intuire una profondità di analisi introspettiva, ambigua e perturbante, che parte dalla linea e dallo studio sull’umano per aprire le forme alla condizione disarmonica dell’esistenza contemporanea. Non è tanto nichilismo spicciolo quanto intensificazione dell’attimo della visione, capace di cogliere il mondo e la carne come se fossero una raggiera intensificata dalla luce e dai corpi delle cose, e per questo disfatta e divenuta fitomorfa e labirintica.
Le sue impressioni cromatiche e strutturali, chiaramente depositarie di anatomie intime, sono ipotesi organiche di profondità nel tentativo di esistenziali paradossi poiché dalle esperienze del reale Materi ha appreso un modo immediato e quasi violento di accostarsi alla lastra di rame, al foglio o al metallo. Il risultato è un tratto filamentoso ed esteso come se i corpi e le cose fossero fatte di fibre naturali in perenne metamorfosi.
La carnalità della sua arte, allora, ha qualcosa di inumano in quanto a parlare non è l’involucro esterno quanto il muscolo interiore, la polpa delle figure che modifica morfologie e tracce, con la natura che cerca di riprendere il controllo dello spazio. La logica delle sensazioni produce l’informe non in quanto negazione di presenza ma sempre in quanto struttura di un qualcosa di profondo, che agisce tra accumulo minerale e pulsazione e pulsione corporea per costruire anatomie. Lo scavo – mentale e fisico in quanto scavo dell’acido e della punta sulle lastre – serve per evidenziare le strutture e per ricondurle ad una forza interiore che si scambia tra tessuto, trama e configurazione. Forse ci troviamo di fronte ad un corpo post-organico anche se apprezzo, nell’espressione pittorica e grafica, quella capacità di ritornare a prendere coscienza delle basi, intuendo l’imitazione come una forma di espressione che rifiuta il visibile per leggere le vibrazioni, vibrazioni che emergono dalle apparenze delle cose.
É una genesi immateriale che trova strumento di espressione nella calcografia, intesa quale campo infinito di sperimentazione sulla superficie e sul piano, e anche nell’installazione dove la fisicità delle forme acquista tridimensionalità e presenza facendosi carico della memoria dell’occhio. Tale relazione tra gli oggetti della natura, oggetti cercati e trovati casualmente, la linfa vitale della loro biologia minerale e il calore del colore e della pittura, incarnata nel segno in disfacimento o in osmosi perenne, conduce ad un cortocircuito tra corpo-involucro-luogo di intellegibilità collettiva. E poiché tale luogo è uno spazio pubblico di fruizione ritorna anche il concetto dell’indossabilità dei lavori, e del loro mostrarsi, giacché molte opere nascono anche dall’esperienza di Materi in qualità di jewels designer.
Le forme, allora, richiamando la carne vegetale della terra si dispiegano in ritmi, scansioni, dinamiche opache che si intuiscono appena, aprendosi alle figure del corpo quale deposito identitario delle pulsioni. I calchi ricavati da massi delle montagne della sua terra e le carte, come specchi invisibili, che si modificano (e si disgregano) nel tempo dell’esposizione, ci narrano, in fondo, del tentativo di raccontare la propria personale percezione del dolore e delle sensazioni. Diceva Camus «Quando si riesce a dare un nome alle cose si diminuisce la sofferenza nel mondo».
Tommaso Evangelista